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Testimonianze: Conterno G.Battista - Voena Gino - Viotto Rino - Avv. Camillo Piacenza





Il racconto di mio padre, Conterno G.Battista


Quel 5 luglio 1944 era un mercoledì come tanti. Come tanti altri in tempo di guerra.
Ma un po’ prima di mezzogiorno, in paese si sparse velocemente la voce: “I tedesch, i tedesch”. Infatti, una colonna di nazifascisti proveniente da Carrù si stava dirigendo verso Farigliano.

Conterno G.Battista
"Tistin"
Conterno G.Battista (1930-2022), si trovava come al solito nell’officina di "Cursin" (Andrea Corsino), in via dell’Asilo, ad imparare il mestiere di fabbro. Così ricorda quella sua giornata.
«Ho sentito un gran trambusto per strada, allora sono uscito a vedere cosa stesse succedendo, c’erano bambini che correvano, forse inconsciamente, mentre uomini e ragazzi scappavano verso le colline, i tedeschi erano già sul piano della Mellea. Mi sono voltato verso l’asilo, l’orologio sulla facciata   segnava le 11.30 esatte. Cosa fare? In officina erano spariti tutti, decido di andare a casa, dal “ciuchè” (Piazza S.Giovanni). Mi incammino, ma quando arrivo in piazza invece di proseguire verso la Chiesa, svolto a destra, verso la strada che porta a Carrù, dopo pochi metri sono al curvone che si affaccia sul Tanaro. A quell’epoca la vegetazione era poca, li vedevo bene, erano già nella discesa della Calcinera. Autoblindo e camion.   Ma proprio in quel momento... ta-ta-ta-ta-ta  ta-ta-ta-ta-ta, le mitragliere hanno iniziato a sparare sulle case e verso la collina. Non ci penso un attimo, torno indietro, costeggio a raso il muro dell’attuale consorzio agrario e proseguo verso casa».
Quelle prime mitragliate falciarono due civili, Giovanni Mancardi, per tutti “Balin” di 82 anni seduto sul muretto del cantone, a pochi metri da dove era arrivato mio padre e Giovanni Taricco detto il Martinet di 86 anni che stava rincasando. Colpevoli di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Quando sono arrivato dal “ciuchè” invece di andare da mia madre sono andato a casa di mia sorella Rina che abita a pochi metri da noi, ho fatto le scale e da dietro un muretto osservavo il corso del Tanaro, in quel periodo in magra; parecchi tedeschi lo stavano attraversando a piedi e si dirigevano verso il rio Lupo per poi salire in paese».
Il ponte stradale era stato fatto "saltare", dai partigiani, qualche giorno prima. Nello stesso momento altri militari guadavano il fiume nella zona della stazione, era la classica manovra di accerchiamento.
«La notizia era già  arrivata  anche qui, mia sorella era rimasta sola con il figlio Franco di appena un anno, suo marito Giuseppe e il fratello di questi, Ettore[1], erano scappati verso le colline. L’altra mia sorella Maria “spedita” da mia madre in Cornole, con le sue amichette. Mio padre, forse ancora all’oscuro di tutto, dal mattino presto si trovava nella vigna in  Carpenea. All’appello mancava soltanto l’altra mia sorella, la più piccola, Lidia, che  era all’asilo
E proprio di lei, mia madre era preoccupata, infatti mi disse “vai a prenderla e portala a casa”.  Avrei dovuto rifare praticamente la stessa strada di poco prima. Non senza timore mi incammino. Arrivato in prossimità della Chiesa, vedo una gran confusione, soprattutto nella parte bassa della piazza, ormai i tedeschi erano in paese, spaccavano porte, finestre, tutto quello che trovavano,  entravano nelle case e saccheggiavano. Le mitragliere, dalla Calcinera, non  sparavano più». Anche perché avrebbero rischiato di “spararsi addosso”.

«Con cautela, sono riuscito ad arrivare all’inizio di via Asilo, passo ancora  davanti all’officina che avevo lasciato poco prima. Proseguo indisturbato, ma quando sono ormai a pochi 
metri dalla scuola materna vedo un tedesco all’angolo di via Fornace, sdraiato a terra, i piedi appoggiati al muro della Chiesa della Madonna del Pilone, la mitragliatrice davanti a lui. Da quella posizione controlla le vie d’accesso al paese. Mi urla qualcosa, faccio finta di non sentire e proseguo, urla più forte, allora mi fermo e chiedo notizie dei bambini, capisce e mi indica la zona della stazione, del ponte... Domando ancora, ma questo impugna la mitragliatrice e la gira verso di me, continua ad urlare, ero convinto sparasse. Tremavo come una foglia, spaventato, non sapevo come comportarmi. In quell’attimo sentii una voce dentro di me: “fai lo scemo, balla, canta...”. E così ho fatto, ballavo, cantavo e nel mentre indietreggiavo, senza mai voltargli le spalle. Chissà cosa avrà pensato. Appena è scomparso dalla mia vista, mi sono voltato e sono corso via».

I bambini e le suore dell' asilo, erano effettivamente stati portati oltre il ponte della ferrovia. Nello stesso posto avevano radunato anche donne e vecchi, prelevati in paese, in tutto 224 persone. Tenuti in ostaggio contro eventuali azioni partigiane. C’era  anche il parroco di Farigliano, Don Cafasso, tornato due anni prima dal confino. 
Ancora  mio padre: «Con il nodo in gola sono riuscito ad arrivare in piazza, la confusione era sempre tanta, entravano ed uscivano da ogni abitazione, continuavano a spaccare tutto. Ad un certo punto sento una mano sulla spalla. Noo... Un altro tedesco. Era alto, grosso, sembrava meno inferocito dell’altro, addirittura accenna un leggero sorriso. Con il capo mi indica di seguirlo in direzione della Chiesa. Il percorso che devo fare io. Tra me e me ho pensato “saprà dove abito?”. Ma no, come poteva saperlo.  Lo seguo. Passiamo davanti alla fontana, poi alla Speranza (trattoria), poco oltre c’era la bottega del calzolaio Cotella, era ovviamente deserta, qui il tedesco si ferma, entra e ne esce con quattro o cinque paia di scarpe, me le mette tra le braccia e indica di andarmene. Non vedevo l’ora. Scendo la scalinata davanti alla Chiesa e appena svoltato l’angolo butto tutto e corro verso casa. Anche questa “era andata...”. Ma adesso avrei dovuto dare la brutta notizia a mia madre: mia sorella Lidia era stata portata via».
Intanto i tedeschi si disseminarono nelle vie del paese, ogni casa veniva controllata e depredata. Ma l’apice della tragedia doveva ancora arrivare.
«Avevo capito che stavano appiccando il fuoco, da casa nostra si vedevano le prime nubi di fumo nero provenire dal centro del paese. Ero davanti all’abitazione dell'altra mia sorella, Rina, quando vidi poco lontano un tedesco, mi avvicinai, ormai ero abituato ad aver che fare con loro, lo portai davanti casa e lo supplicai di non bruciarla, “c’è un bambino piccolo” gli dissi. Mi fece capire che avrebbe dovuto scrivere qualcosa sulla facciata, corsi a casa, presi un piccolo barattolo con due dita di minio (vernice antiruggine), glielo portai, scrisse “nicht Feuer”. Lo trascinai anche davanti a casa mia, il minio era finito, trovai del carbone e con questo scrisse la stessa cosa. Pensai: “forse riusciamo a  salvare le due abitazioni”». Ma non andò proprio così.

«Non trascorse molto tempo che arrivarono. Questa volta erano in due. Uno di essi aveva il lanciafiamme, si diressero subito verso la casa di mia sorella, e dopo aver visto la scritta, grande e ben visibile, parevano belve inferocite, ma rinunciarono ad entrare. Adesso toccava a noi, io e mia madre eravamo sulla soglia della porta, feci notare loro la scritta, ma non servì a nulla. Salirono le scale ed entrati nelle prime stanze cominciarono a “sputare fuoco”. A questo punto mia madre, gridando, si scaraventò contro uno di loro, ma questi con il calcio dello Steyr (MP 40)  la gettò a terra. Tentai di proteggerla, le dissi: “stai zitta, stai zitta che ci ammazzano tutte e due”. Il fuoco divampava con facilità in tutte le camere e nel fienile. Pochi minuti ed i due  uscirono imprecando e sghignazzando. Il loro sporco lavoro l’avevano svolto. Per fortuna, noi eravamo salvi».

Nell'abitazione accanto a quella di mio padre abitavano alcuni sfollati, in questo caso provenienti da  Genova, ma in Farigliano vi erano circa 400 di queste persone arrivate da ogni dove in cerca di un tetto. Tra questi sfollati c’era anche la famiglia di Plinio Michetti, di Torino, già allora  famoso liutaio, divenuto, col passare degli anni, conosciuto in tutto il mondo per i suoi violini. Suo figlio, Leonardo Michetti, (vedi anche in questo capitolo) lo ricorda così: Nel 1925 si trasferì definitivamente a Torino, dove nel 1930 nacque il figlio Leonardo, lo scrivente. Fu attivo con continuità come liutaio almeno fino al 1968, in particolare anche durante la seconda guerra mondiale dal 1940 al 1945. Nel 1944 le truppe tedesche diedero fuoco, fra gli altri, al paese di Farigliano (CN), dove la famiglia era sfollata, e un baule contenente i suoi violini fu da me salvato nell’incendio della casa”.[2]

Anche altre case, in piazza San Giovanni, bruciavano, era un andirivieni di persone che cercavano di spegnere il fuoco, ma cosa si poteva fare avendo a disposizione solo secchi di acqua. Poco o nulla.
«Cercai di salvare qualcosa, ricordo di aver gettato dalla finestra un tavolino in legno, lo conservo tutt'ora, poi, chissà perché, inconsciamente ho trascinato fuori dal portico un pesante incudine, forse l'unica cosa che non avrebbe subito il danno del fuoco. Anche le mucche feci   uscire, invece il piccolo vitellino non ne voleva saperne di muoversi. Uscì da solo poco dopo.
Casa di mio padre, l'unico trave "sopravvissuto" all'incendio,
sono ben visibili, ancora oggi, i segni del fuoco

Intanto i primi travi cominciavano a cedere ed a cadere all'interno della casa. Si sentiva odore di carne bruciata, erano i conigli e le galline. Il tempo passava, ci si aiutava tutti quanti, si cercava di entrare nelle abitazioni, di prelevare qualsiasi cosa e portarla fuori, all'aperto... Proprio in questa circostanza, mentre mi trovavo vicino al ciuchè (campanile), ricordo bene un fatto. Erano ormai le cinque- sei di sera, un tedesco, con la mitragliatrice puntata verso la collina,  era appostato in fondo alla piazza, praticamente sulla “riva” che vede il rio Lupo, all'improvviso una raffica interminabile. Da dietro delle “capale” (covoni) era sbucata una persona (la riconobbi), correva sulla stradina, le pallottole “picchiavano” a pochi centimetri dai suoi piedi, ma non lo beccarono, riuscì ad infilarsi nella folta vegetazione ed a scappare. Proprio in quell’istante sentii gridare in tedesco, le voci provenivano dalla casa che si trova davanti all'attuale biblioteca.

Farigliano, pzza. San Giovanni, a sinistra (A) la casa di mio padre,
 mentre a destra (B) è situata la terrazza dove erano radunati ufficiali tedeschi e fascisti locali

Sulla  terrazza di quella casa erano radunati parecchi ufficiali tedeschi ed alcuni fascisti locali. Capii che volevano sincerarsi dell' accaduto con il militare, il quale fece un cenno con la mano, come per dire... tutto a posto. Tra le varie persone presenti, una sembrava avere parecchia “confidenza” con gli ufficiali nazisti. Ero lì, a poche decine di metri, li osservavo. Si trattava dell’allora responsabile della centrale elettrica del Navetto, risiedeva a Farigliano ma era un forestiero,  un fascista convinto, non per nulla suo figlio, che  conoscevo abbastanza bene dato che eravamo quasi della stessa età, si chiamava Benito. Mi sono sempre domandato e penso anche molti altri, sul perché arrivarono questi soldati proprio a Farigliano e se qualcuno avesse appoggiato il tutto con “una buona parola”. Se non ricordo male, poco tempo prima, i partigiani avevano lanciato delle bombe in “casa” (intesa come centrale) di  questa persona.

Sono convinto che questo personaggio abbia avuto un ruolo tutt’altro che marginale in questo triste episodio. Ma forse sbaglio...
Verso le sette, i tedeschi andarono via, gli ostaggi oltre il ponte erano stati liberati, anche mia sorella tornò a casa. Dalle colline gli uomini scesero in paese, chissà quale scenario da lassù. Mio padre tornò dalla Carpenea con la sua bicicletta. Insieme cercammo di spegnere  gli ultimi focolai, io con i secchi e lui con la “pompa dell’acqua” (irroratrice a spalla) ma ormai non c’era più nulla da spegnere. Era notte, forse c’erano le stelle o forse no, ma dalla mia camera potevo toccare il cielo con un dito».





Casa Prato, Via Roma, Farigliano


Alla fine della giornata si contano due civili uccisi e circa 250 case incendiate, tra cui anche quella dei mie nonni Marchin (Prato) e Tonia che avevano la bottega di generi alimentari in via Roma.

 Per quanto riguarda la centrale elettrica del Navetto, effettivamente aveva subito due sabotaggi, il primo a marzo ed il secondo a giugno, come vedremo in seguito. Inoltre occorre ricordare che nella centrale si era stabilito[3] un reparto della GNR.  Aldo Spinardi, partigiano delle formazioni autonome di Mauri (nome di battaglia Curtara) ricorda così l'ingresso dello stabile: “Il ponte era chiuso ai due lati da un cancello di ferro e per di più, per un bel metro, sopra, la difesa era completata da un groviglio di filo spinato”.[4]

Sono convinto anch'io che questo capo-centrale, fosse,  una “Fonte fiduciaria attendibile” (come usava scrivere la GNR nei suoi notiziari).

Inoltre questi fascisti si fecero notare per alcuni “rastrellamenti” in paese: giovani fariglianesi erano stati malmenati e costretti ad arruolarsi tra le loro fila. Alcuni inviati alla caserma di fanteria di Alessandria, altri a quella degli alpini di Aosta e altri ancora nella Polizia ausiliaria di Cuneo. Ma non trascorse molto tempo che tutti rientrano a Farigliano avendo disertato dalle forze fasciste.








Case incendiate nella piazza di Farigliano





Case incendiate nella piazza di Farigliano





Testimonianza di Gino Voena



Gino Voena
Riporto fedelmente la testimonianza[5] di Gino Voena, di Farigliano, (1928-2016), rilasciata a luglio 2014 in occasione del 70° anniversario dell'incendio di Farigliano.









Mezzogiorno. Esplode su nel cielo limpido e ventilato del paese la prima granata tedesca. Fanno seguito le raffiche velocissime della “sega di Hitler” e quelle più cadenzate della mitragliera da 20 mm, crepitano i tà-pum e le machinenpistolen.
Farigliano, l’attuale corso Umberto (un tempo via della Stazione).

Le prime mitragliate dal piano della Mellea, colpirono queste case

Sulle facciate delle case che fronteggiano il Tanaro le persiane volano in mille pezzi, i muri si brecciano, crollano comignoli e tegole, all’interno letti e comò vengono sforacchiati. Sulla collina fischiano i proiettili dietro i fuggiaschi e prendono fuoco le prime “capale”. Balin, un vecchietto piccolo e magro che se ne stava seduto sul muricciolo del “cantun”, crolla come un sacco vuoto alle prime raffiche. Taricco il “martinet” già anziano, pesante e lento viene falciato all’incrocio della provinciale con la via della stazione, a dieci metri dall’uscio di casa. (sulla facciata sono visibili tutt’ora i buchi di quella raffica). I miei coetanei Mario Bastia e Beppe Bacot, più agili, si riparano dietro il muricciolo e a carponi guadagnano le vie interne e riparate; mio padre li caccia quasi a forza nella nostra cantina dove ci siamo già rifugiati i miei fratelli ed io: ne uscirono con noi verso le due, col sedere impastricciato della pasta messa in cantina per ritardarne la lievitazione (mio padre era panettiere).
Il polverone sollevato dalla colonna tedesca, circa cinquecento uomini, un battaglione proveniente da Fossano che scendeva lento da Mellea, aveva messo in allarme tutto il paese dieci minuti prima.
I tedeschi! I tedeschi!: questa semplice parola gela i visceri e ingrigia i volti più abbronzati; porte e finestre si chiudono secche, le madri chiamano i figli, giovani e anziani si buttano in corse affannose su per la collina, ci si dispera per il figlio o il marito fuori casa e quelli fuori casa vedono tutto dalla collina, attanagliati dall’angoscia per i loro cari alla mercé dei barbari tra le mura del paese, mentre le nuvolette rosa-grigio degli “sdrappel” infiocchettano i campanili.
Sparano sempre, quintali di munizioni contro il nostro povero paese dalle strade lastricate a “sternia” con i rigagnoli al centro, senza fognature e senza acquedotto, contro le povere case, le più recenti dell’ottocento e quasi tutte con il fienile e la stalla, e spareranno fino a sera, mentre contro di loro non viene sparato nemmeno un colpo. Perché? Bisognava dare una lezione ai “banditi” sulle Langhe e in quel momento non disponevano di migliaia di uomini, come sempre quando si trattava di rastrellare. Ci voleva una lezione perché pochi giorni prima i partigiani di Mauri avevano fatto saltare i ponti della provinciale e della ferrovia. Anche Piozzo subì la “lezione” reo soltanto di affacciarsi sulle Langhe come un balcone.
Guadarono il Tanaro, in quel momento quasi in magra, con una manovra a tenaglia, e sempre sotto la protezione delle armi pesanti che sparavano anche ai cani randagi; entrarono in paese dalla stazione a ovest e dal Rio a est. Con angoscia e terrore li sentivamo avvicinarsi al centro del paese, sentivamo le raffiche delle armi portatili avvicinarsi sempre di più alla piazza: e impiegarono due ore, sgranarono migliaia di proiettili e contro di loro nemmeno un colpo di doppietta. Su tutto il territorio comunale partigiani non ne esistevano, a quel tempo si tenevano più in alto verso Belvedere e Murazzano, ad almeno dieci chilometri di distanza. Sentimmo le grida che in tedesco sembravano più terribili e i colpi dati col calcio del fucile contro le porte. Toccò alla nostra, entrarono e salirono nelle stanze da letto alla ricerca del denaro e dell’oro; sentiamo provenire una fucilata di sopra e, con una mano sulla bocca di mia sorella che stava per urlare, restammo lì al buio della cantina a sentire quei passi orribili sopra di noi, con il terrore che ci piovesse addosso una bomba a mano lanciata per facilitare l’esplorazione di quel buco che, chissà, per loro poteva contenere “banditi”.
Se ne andarono. Mia zia, mio nonno, mio padre, furono portati sulla piazza come tutti gli altri trovati nelle case. Anche Ignazio, il povero paralitico, immobilizzato a letto dalla prima guerra mondiale, fu appoggiato a terra contro un muro assieme a suo padre già moribondo, (sarebbe morto pochi giorni dopo). Rilasciarono mia zia e il nonno, mentre mio padre fu caricato di due enormi radio asportate da qualche casa e avviato come ostaggio oltre il ponte. La zia ci avvisò che dovevamo evacuare perché avrebbero bruciato tutto. Portammo in cantina tutto il possibile, biancheria, vestiti, materassi; su nelle camere da letto scoprii il perché del colpo: era partito nel tentativo di sfondare col calcio del fucile un armadio chiuso a chiave e si era conficcato nel muro di fronte. E se avesse colpito un kamerat? Quello là mica andava dire che l’aveva ammazzato lui. Non oso pensarci. Avevano rovistato ovunque alla ricerca di soldi e avevano in filato nei cassetti e negli armadi rotoli di carta tricolore, per mostrare alla seconda ondata dei razziatori che si trattava di “patrioti” e così far appiccare il fuoco. Caricammo il carretto di vestiti e ci avviammo fuori paese mentre una massa di donne piangenti cariche di fagotti con i bambini attaccati alla sottana venivano sospinte alla periferia. “Oltre il ponte” era l’ordine. Mia madre, mia sorella e il fratello più piccolo con carretto riuscirono a deviare verso la fornace, io e l’altro fratello con una cesta enorme fummo sospinti verso la ferrovia e lì vedemmo le prime case bruciare. I travi infuocati rovinavano sulla strada, ai lati c’erano delle pecore bruciate; vedemmo anche Taricco steso al suolo ormai da due ore. Il parroco don Cafasso con il sacramento usato per l’agonia distribuiva conforto e preghiere ai parrocchiani e lanciava anatemi contro gli “unni”, lui, che due anni prima era ritornato dal confino fascista, dava la benedizione dei moribondi a tutto il paese.
Un giovane di Viaiano veniva lapidato con le pietre della ferrovia mentre correva sulla massicciata e lo chiamavano “bandito”. Io mi dicevo: “quello ora lo ammazzano”. E ci spingevano sempre avanti “oltre il ponte”. Quel ponte mezzo diroccato con un locomotore immobilizzato al centro. E quel ponte diventò per me un confine. “se passiamo di là” pensavo “o si va in Germania o ci fucilano”. E fu allora che ci buttammo giù per la scarpata, io, mio fratello e la cesta, in un momento che non li avevamo alle costole. Restammo nascosti in fondo al pendio non so quanto tempo e poi cercammo di allontanarci, ma attraversando un tratto scoperto venimmo avvistati da un “crucco” sul ponte. Ci puntò il fucile contro e gridò “Alt!”, mi dissi “ora spara”. Non sparò. Urlava “Lust! Lust!” accennando a farci risalire. Sul ponte, sempre urlando, nella sua lingua, mi diede un calcio nel sedere con quegli stivali così “guerrieri” che mi sollevò da terra. Ringraziai che mi aveva solo dato un calcio, poteva anche farmi fuori.
Di là dal ponte, vicino al cavalcavia, un autoblindo sparava con la mitragliera in direzione della collina; a dieci metri di distanza, addossati ad una rete metallica, i bimbi dell’asilo urlavano, la faccia sporca, rigata di lacrime, le mutandine stese ad asciugare sulla rete, mentre loro si aggrappavano alle suore che pregavano. Più in là una massa di oltre duecento persone, in maggioranza donne e bambini, contemplava impotente la alte colonne di fumo nero che salivano dal paese; ogni tanto qualche donna vedeva la propria casa prendere fuoco, correva contro lo sbarramento dei nazisti e veniva ricacciata indietro brutalmente. Veniva consolata e poi toccava ad un'altra donna vedere bruciare la propria casa e poi ad un'altra ancora, finché formavano un solo grappolo piangente.
L’agonia del paese che bruciava durò tre ore e tre ore durò l’agonia di chi assisteva impotente. E se qualcuno avesse sparato sulle colline? Sarebbe stato un macello, una Marzabotto piemontese. Ma nessuno sparò contro le “teste di ferro”.
Verso le cinque e mezza il comandante tenne un discorso, immediatamente tradotto dall’interprete; disse che la colpa era dei banditi, che ora i bimbi, le donne e i vecchi potevano andare e che facessero attenzione perché “forse qualche casa bruciava ancora”. Per noi non c’era “forse” vedevamo tutto il paese in fiamme. Alla fine si contarono duecento cinquanta case incendiate. Io sui quindici anni ero il vecchio dei giovani e mio padre sui quarantacinque era il più giovane degli anziani. Sotto quell’enorme cestino che ci eravamo trascinati fin là io e mio fratello riuscimmo a passare lo sbarramento di controllo. Chiamai mio padre rimasto là come ostaggio, ma un tedesco mi disse: “papà non andare, papà qua restare”. Riuscì poi a passare caricandosi sulle spalle Ignazio, il paralitico, che chissà come, avevano trascinato sin là. Durante il cammino verso il paese, Ignazio, a cui quegli elmetti ricordavano il lontano ’18, mostrava i pugni ai “crucchi” mugolando frasi incomprensibili e mio padre gli diceva: “stai zitto, tu sei già mezzo moribondo, ma io debbo vivere”.
Ci dissero che tutto era finito ma le truppe, ormai ubriache per il vino bevuto direttamente dalle botti dopo che le avevano sforacchiate a colpi di mitra, si abbandonavano con gioia all’incendio. Arrivava un gruppo di soldati e dava fuoco, ne arrivava un altro (forse sobrio) e aiutava a spegnere. Alle sei arrivai alla piazza: la mia casa non bruciava, ma intorno era tutta una fornace, le donne ritornate invocavano aiuto. La “censa” davanti a casa mia fu incendiata proprio allora, cercai di spegnere e un tedesco mi aiutò, ci riuscimmo. Arrivò un altro e incendiò di nuovo e bruciò tutto. Offrii una bottiglia di marsala ad un ufficiale dicendo che nella nostra casa c’era mio nonno vecchio e malato e lui scrisse sulla porta – nich feuer – e altre parole e questo ci salvò l’abitazione. Ma altre donne chiamavano, centinaia di case bruciavano e portai tanti secchi. Con gli abiti e i capelli bruciacchiati uscii da una casa dove crollavano i soffitti. Le richieste di aiuto erano tante e la gente poca, finché verso le otto un razzo attraversò il cielo ed i soldati sparirono a poco a poco. La colonna germanica affrontò le salite verso Carrù e gli uomini rientrarono dalle colline a rotta di collo chi a piangere sui muri e travi fumanti, chi ad aiutare i vicini. Esausto, finalmente rifiatai e ripresomi mi trascinai fino fuori paese dove mi attendeva il resto della famiglia, portando con me il minestrone del mezzogiorno ormai acido per il gran calore; poi mi addormentai in una cesta sotto le stelle e i riverberi rossastri degli incendi mentre un aereo ronzava su di noi, forse contemplando lo spettacolo, forse scambiando i fuochi per segnali di lancio ai partigiani. Ma quei segnali gli saranno parsi troppo e troppo grandi. Se ne andò”




La narrazione di Rino Viotto


Rino  Viotto
Rino Viotto (1923-2005). Fariglianese, autore di vari libri sulla storia locale e partigiano del 1° GDA dal 15-11-1943 al 07-06-1945 (Fonte Istoreto).
La testimonianza qui riportata è ripresa dal piccolo fascicolo: 1944-1994 – 50° anniversario dell’Incendio di Farigliano (Comune di Farigliano).

«Mezzogiorno era suonato da poco.
La maggioranza degli abitanti sedeva a tavola per consumare il misero pasto che le ristrettezze della guerra rendevano sempre più magro.
Un improvviso boato: nel cielo di Farigliano, una prima granata esplodeva, seguita da altre; poi alcuni colpi di cannone sparati da un carro armato, quindi raffiche di mitragliatrice che crivellavano i tetti.
Un grido angosciato si diffuse per il paese: “La repubblica, i tedeschi!”
Come è noto, il grido di “repubblica” era solito indicare i fascisti della sedicente repubblica sociale nelle loro molteplici versioni armate: Guardia Nazionale Repubblicana, Brigate Nere, SS italiane, Reparti Arditi Ufficiali, ecc. ecc.
Qualcuno, affacciatosi lungo la via  che portava alla stazione, aveva scorto una lunga colonna di soldati che stava prendendo posizione con le armi automatiche al di là del Tanaro. Ne conseguì un fuggi fuggi generale. I giovani renitenti alle chiamate della “repubblica” si buttarono alle colline, dopo essersi muniti di un tozzo di pane; i più anziani spinsero il bestiame alla campagna per sottrarlo a possibili requisizioni; le donne nascosero i pochi preziosi di famiglia, ricordo di momenti felici, ed il poco denaro gelosamente custodito.
In tanto trambusto, molti finirono di saltare il pasto, mentre il rumore degli spari andava crescendo. Poi, d’improvviso, un silenzio inquietante subentrò a tanto fracasso.
Un’ attesa spasmodica pervase il paese.
Ma ecco apparire le prime pattuglie di soldati ( si appurerà successivamente trattarsi di SS tedesche, la maggior parte di origine altoatesina) che, impugnando le pistole mitragliatrici, facevano il loro ingresso in paese sparando all’impazzata. Tra il primo colpo di mortaio e le raffiche delle armi automatiche era trascorso poco più di mezz’ora: un tempo di attesa tale da sembrare un’eternità. I tedeschi –si saprà più tardi- provenivano da Fossano ed erano stati trasportati con vari automezzi; un loro reparto si era diretto anche a Piozzo. L’intento degli occupanti era quello di infliggere una lezione agli abitanti dei paesi Farigliano e Piozzo per il loro appoggio alle formazioni dei “ribelli”; ma a Piozzo, paese assai lontano dai centri di gravitazione dei partigiani, quale colpa veniva addebitata?
Farigliano, il vecchio ponte sul Tanaro
In ogni caso, guadato il Tanaro, in quel periodo quasi asciutto ( il ponte sulla carrozzabile era stato distrutto tre giorni prima, mentre quello ferroviario, con una locomotiva inchiodata nel bel mezzo e una piccola voragine su un fianco, non agevolava certo il transito pedonale), i tedeschi, con una manovra a tenaglia, investirono il concentrico, protetti dal tiro delle armi pesanti che avevano ripreso a sparare. Si trattava di una vera e propria azione militare.
Ma di “ribelli” in paese non ce n’era e gli inermi abitanti cercavano riparo dalle pallottole nella campagna o nelle cantine delle loto abitazioni. Nel frattempo, le pattuglie avanzavano e si disperdevano per le strade dell’abitato. Ogni casa, ogni stalla veniva visitata, anche i pollai ed i porcili erano l’obiettivo di questi invasori spinti da intenti predatori. Difatti, molti di costoro erano alle prese con del bestiame rubato che tentavano di portare al di là del fiume.
Nel trambusto, una fila di bambini piangenti, accompagnati dalle suore, venne diretta oltre il fiume, quasi spinta a forza da alcuni soldati con le armi spianate su quegli innocenti. Anche donne e anziani erano stati prelevati e portati sotto scorta nei pressi della Officina Taricco, al “Martinetto”, oltre il ponte distrutto. Così si ricorreva ad un sistema già collaudato in altri paesi invasi dai tedeschi, al fine di evitare possibili reazioni da parte dei partigiani.
In questo luogo di raccolta furono ammassate le bestie sottratte ai loro proprietari, che vennero caricate su automezzi abilmente occultati al di là della ferrovia.
Sulla folla piangente e implorante, con la sua alta statura, come impietrito, quasi ieratico, si erse il parroco, pure lui rastrellato, che cercava di rincuorare la gente ammassata e sempre più numerosa.
Ma ecco le prime fiammate. Non si comprese all’istante esattamente di che cosa si trattasse: se fossero segnali convenzionali scambiati dalle truppe intente al saccheggio o pallottole traccianti. Ma presto la realtà apparve nei suoi aspetti terrificanti.
Cominciarono a levarsi colonne di fumo e si udì il crepitio del fuoco. Gli incendi prima isolati e sparsi diventarono sempre più fitti. Il sole stava calando e lo spettacolo era tragico. Il gruppo di anziani tenuti in ostaggio assisteva ad una scena dai contorni apocalittici. A sinistra, sulla collina, bruciavano le case di Piozzo; in basso, oltre il Tanaro, tutto un paese era divorato dalle fiamme. Tra i bagliori degli incendi, si scorgevano uomini e donne correre come forsennati con secchi colmi d’acqua per un primo tentativo di spegnere o roghi, mentre i tedeschi si allontanavano con il bestiame razziato. Al rientro nell’abitato ci si accorgerà che due poveri vecchi erano stati trucidati: l’uno Giovanni Mancardi, detto Balin, di 82 anni, giaceva davanti alla propria abitazione colpito mentre sedeva sul muricciolo del “cantone”, forse per osservare ciò che accadeva; il secondo, Giovanni Taricco, detto il Martinet, di 86 anni, era stato ucciso mentre rincasava dalla propria officina. A chi rientrava in paese, si presentava uno spettacolo tremendo.
Era una corsa affannosa, spasmodica, fino alla propria casa per conoscere le sorti dei congiunti; gruppi di persone sostavano all’addiaccio in piazza S.Giovanni, in mezzo a balle di paglia, privi ormai di ogni loro bene. Non si piangeva più; non vi erano più lacrime da versare.
Il giorno seguente il panorama sarebbe apparso ancor più drammatico. La maggior parte dei fariglianesi aveva trascorso la notte impegnata a spegnere il dilagare degli incendi. Serpeggiava tra quella gente, intirizzita e coperta di fuliggine, la rabbia per il gesto di un nemico che era ricorso alla punizione contro tutti, non riuscendo a contenere l’azione dei partigiani.
Un fumo acre si spandeva nell’aria e ci vorranno parecchi giorni perché scompaia del tutto.
Ad esso si mescolava l’odore di bruciato, di continuo alimentato da piccoli focolai non ancora del tutto spenti. case coi tetti crollati si affiancavano ad altre annerite dagli incendi e dal fumo; talune abitazioni presentavano veri e propri crateri, mentre altre apparivano con occhiaie funeree perché prive di porte e finestre distrutte dal fuoco: 240 edifici erano stato distrutti o aggrediti gravemente dalle fiamme. Oltre al problema della casa, pesava il dramma della perdita, a volte totale, del bestiame, elemento indispensabile per sopravvivere in una situazione di isolamento determinata dai ponti distrutti e dalle misure di rappresaglia dei nazi-fascisti, che consideravano la zona rifugio di “banditi”, e quindi ne impedivano il rifornimento dei pochi generi alimentari già razionati. Infine, esisteva il problema degli sfollati da Torino [...]: si trattava di persone che avevano già perso la propria abitazione in città, prive di tutto e ora anche del rifugio nel paese di sfollamento.
In tanto disastro e fra tanta rabbia, si fece strada il sentimento di solidarietà. Su iniziativa del parroco, ci fu una raccolta di viveri e indumenti depositati nei locali del comune (la canonica era quasi inagibile a causa del fuoco), e quindi distribuiti ai bisognosi. Una gara tra poveri per aiutare i più derelitti. Degnamente seppelliti i due morti della giornata, si iniziò l’opera di ricostruzione.
Venne subito trovato un letto a chi aveva perso la propria dimora e numerose famiglie ospitarono chi era in difficoltà. Si trasferirono fuori dall'abitato le macerie delle case, i muri pericolanti vennero abbattuti, si provvide a puntellare tetti e cornicioni ancora riparabili.
Così, pur con paurose ferite aperte, la vita riprendeva, anche se la lotta non era terminata e se nove mesi dividevano ancora quel momento dal giorno in cui si sarebbe tornati alla normalità in un nuovo clima di libertà. Può darsi che per le generazioni ultime quel terribile giorno, forse uno dei più lunghi nella storia millenaria di Farigliano, sembri soltanto una lontana e brutta favola o il parto di fantasie malate per le memorie truci che evoca. Si tratta, invece, di uno dei ricordi più tristi della realtà tristissima che fu la vicenda dell’occupazione tedesca e del regime fascista nei venti mesi tra 8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945».






 Il ricordo dell' avv. Camillo Piacenza

 
In occasione del secondo anniversario dell'incendio di Farigliano, l'avvocato Camillo Piacenza ricordava con un articolo su La Vedetta, quella triste giornata.




Ecco cosa scriveva su La Vedetta (settimanale della DC cuneese) del 12 luglio 1946.
Articolo completo in Documenti n°23.




Il settimanale La Vedetta del 12 luglio 1946
"La notte dal 3 al 4 luglio 1944 era stato fatto saltare dai partigiani il ponte della provinciale Carrù-Farigliano sul Tanaro. Il mattino seguente veniva bloccato dai partigiani, sul ponte ferroviario affiancato al primo, il treno viaggiatori delle ore 7, danneggiato il ponte e reso inservibile il locomotore, così che i viaggiatori furono costretti a proseguire per Cavour od a ritornare indietro verso Torino. Il convoglio rimase -e vi rimase per parecchi mesi- inchiodato sul ponte.

Si era in pieno regime repubblichino-nazista ed il tallone tedesco maggiormente gravava sul nostro paese disgraziato. Di pochi giorni prima era pure l’avviso di Kesselring alla popolazione civile che avrebbe pagato colle sue donne, i suoi bambini ed i suoi averi gli atti di sabotaggio e di insidia dei nostri partigiani alle spalle e contro le truppe germaniche combattenti per « la gloria d’Italia »!

Questa la premessa.

Ecco il fatto:

il primo, in ordine di tempo, in cui Farigliano ha lasciato brandelli di carne e spaventose mutilazioni, delle quali ancora si è riavuto (e chissà quando potrà riaversi), che riconferma di cosa sia capace la «teutonica rabbia»: dalla rea progenie, degli oppressor discesa, cui fu prodezza il numero, di cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il non aver pietà».

Chi narra aveva ritenuto prudente rifugiarsi da due giorni, in un suo podere, di dove, dalle strapiombanti rupi sul Tanaro, si apre, a chi guarda, la stupenda visione della vallata del Tanaro verso Carrù e della pianura cuneese, visione chiusa, in lontananza, dalla violacea cerchia alpina di incomparabile bellezza. Si snoda, quasi ai piedi la strada che da Carrù, per la Mellea, accede a Farigliano, a mezzo del ponte, che come si disse, era stato fatto saltare.

Da questo «poggio» ha assistito all’assalto della indifesa Farigliano, dove gli erano pure rimasti: la madre, la moglie e la sorella con tre figli.

Alle ore 11 circa, una gran nube di polvere sulla Carrù-Farigliano denuncia l’avvicinamento di una lunga colonna di automezzi. Si ferma all’altezza del Santuario della Mellea: non si distingue chiaramente, ma senza dubbio è una colonna militare tedesca e vi debbono essere autoblinde. Dopo un breve «alt» prosegue per Farigliano e, all’altezza delle case dette «Calcinera», si ferma e, senz’altro, così, come se oltre il fiume vi fossero ridotte anglo-americane, inizia il cannoneggiamento del paese da parte di cinque o sei autoblinde; senza preavviso, senza tentare nemmeno di parlamentare colle autorità locali.

E’ un tiro rapido, fatto anche, con proiettili incendiari che serrano in un cerchio di ferro e fuoco tutto l’abitato. Dense colonne di fumo, qua e là provano che il fuoco è già stato appiccato, dai proiettili, alle prime case.

Dura circa un’ora, fino alle 12.30 circa: poi il tiro si allunga, batte le colline circostanti e si vedono chiaramente le truppe tedesche, in perfetto assetto di guerra, guadare il fiume, circondare il paese con tattica perfetta e muovere all’assalto… di vecchi, donne, bambini rintanati nelle case (gli uomini erano fuggiti tutti), dalle quali li cacciano per prenderli, parte in ostaggio e parte, per lasciarli convergere verso la parte alta del paese. Furono presi in ostaggio ed avviati oltre il fiume, facendoli passare sul diruto ponte della ferrovia: donne, bambini, -di chi scrive furon presi in ostaggio la moglie ed i quattro figli – due sacerdoti, persino le suore ed bambini dell’asilo infantile!

Si iniziò quindi il saccheggio delle case e poi il sistematico incendio del paese. Furon date alle fiamme ben novantadue case delle quali una notevole parte andò completamente distrutta e danneggiate centocinquantatre famiglie, delle quali molte, troppe persero tutto: mobili, arredi, indumenti di vestiario, letto e tetto; furon poste letteralmente sul lastrico. La casa parrocchiale subì colle altre e prima delle altre l’azione purificatrice del fuoco!; e nel gran braciere andarono distrutti mobili, indumenti personali ecc. del Rev. Teologo arciprete don Carlo Cafasso e del Vice Curato, salvato per puro caso la maggior parte degli arredi sacri.

Intanto dalle colline circostanti erano partite raffiche di mitragliatrici da parte dei partigiani e le autoblinde continuavano a sparare su di esse, incendiando anche covoni di grano, sempre alla ricerca dei «ribelli».

Così fino alle 17 circa, dopo la quale ora, accertato di avere domati… i «banditi» di Farigliano e l’inerme popolazione, accertati che, nel frattempo nessuna perdita era stata lamentata nelle gloriose truppe tedesche, così eroicamente comportatesi negli scassi delle case, nel saccheggio, negli incendi, liberarono gli ostaggi che si precipitarono negli stabili bruciati per salvare almeno lo stretto indispensabile. Ma ancora furono impediti dalle armi germaniche che non si peritarono di puntarsi contro le stesse donne ed i fanciulli che, disperatamente cercavano almeno di salvarsi una coperta ed un materasso per la notte. Non solo, ma è accaduto (come a certo Fia Andrea di Sancasciano [San Casciano]) che, man mano che, dalla casa in fiamme, si buttavano, dagli abitanti, le masserizie nell’aia per salvarle, i gloriosi nazisti sistematicamente vi appiccavano il fuoco.

A certe case diedero fuoco ben tre, quattro volte di seguito, per particolare privilegio, come a quella di chi scrive, giustificando tale tenacia, prettamente teutonica, colla frase: «casa ribelli che non brucia abbastanza! » e bruciò infatti con tutto quanto conteneva.

Fortuna che il proprietario non v’era, perché avrebbe fatta bella mostra di sé –fucilato ben inteso- ad uno dei pali della piazza principale del paese per dare un esempio alla popolazione…

Il tutto per dichiarazione ed ordine dello stesso capitano tedesco comandante delle SS che aveva guidato questa magnifica azione di guerra. Conclusione: due morti, novantadue case distrutte, 153 famiglie senza tetto e questo per un paese di circa duemilacinquecento abitanti, comprese le frazioni non è poco".


                                                                                                                               Camillo Piacenza



Note



1  Ettore Carena, dal 15 luglio 1944 fece parte degli Autonomi di Mauri  nel distaccamento dello Sbaranzo (Clavesana)   
3   Rino Viotto  in  Autonomi, N°1,  1° semestre 2001.   Anche mio padre ricorda la presenza dei “repubblichini” nella centrale.
4   Aldo Spinardi , No Kaputt, A.S.E. Torino, 1957, pag.186
5  www.facebook.com/gigliola.voena/posts/10204561242860706

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